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L’identità originaria dei 5 Stelle. Ma quale?

Pubblicato il 26/09/2020 09:00

di Alessio Mannino.

Appostato nelle retrovie in attesa della regolare sconfitta alle amministrative (dove i 5 Stelle quagliano solo in casi eccezionali, vedi in passato Roma o Torino), nella sua impietosa analisi post-voto Alessandro Di Battista ha suonato il richiamo dell’identità originaria del Movimento. Già: ma qual è l’identità originaria del Movimento? Se qualcuno è in grado di definirla, alzi la mano. A rigor di fatti storici, dovrebbe equivalere alle stelle a cui deve il nome: acqua pubblica, difesa dell’ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo alternativo e connettività digitale. Agli inizi, nel 2008, la creatura fondata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si proponeva di ridare voce al popolo ostaggio della partitocrazia, succursale dei grandi affari trasversali, a partire da temi civici di sapore ambientalista, tipici dell’attivismo di base diffuso a sinistra. L’orizzonte ideologico di fondo era un impasto tecno-ecologista e vagamente anti-liberista che puntava alla democrazia diretta come mito fondativo e nella diffusione elettronica sul territorio (i meetup) come organizzazione liquida, con il blog del comico-leader a dettare l’agenda e fare da catalizzatore. Di settimana in settimana e di mese in mese i contenuti si arricchivano di nuovi spunti che il sito accumulava espandendosi in varie direzioni, via via allargando spettro e interessi fino a mettere in discussione i tabù della Nato, dell’euro, della finanza internazionale, della bancocrazia, perfino dell’unità d’Italia. I partecipanti della prima ora vedevano affluire ingressi dai mondi più disparati, delusi di ogni parte, provenienti da lidi anche molto lontani, in un calderone ribollente di energia che il geniaccio irregolare di Grillo e la mente calcolatrice di Casaleggio orientavano tenendo il controllo assoluto dall’alto, mentre giù in basso, nei gruppi locali autogestiti, regnava (e più o meno regna ancora, oggi mestamente) una vitale ma non tanto simpatica anarchia.

A dieci anni e fischia dagli esordi, il tragitto teorico del M5S ha proceduto per scosse, strappi, fughe in avanti e all’indietro senza mai un’elaborazione concettuale non diciamo sistematica, ma neanche affrontata per quel che dovrebbe essere: ossia la base, il nucleo, il fondamento di idee forti, chiare e certe sul quale poter contare per rispondere alla domanda “chi siamo, e cosa vogliamo?”. Oggi Grillo rispolvera d’amblée la democrazia diretta in sostituzione di quella parlamentare (e lo fa per ragioni tattiche del momento, per distrarre l’attenzione dall’infognamento correntizio in cui sono precipitati i suoi, e per poter lanciare ad attivisti ed elettori più fedeli un segnale, puramente simbolico, che gli “ideali” non sono in smobilitazione). Ma è lo stesso Grillo che monta la guardia all’alleanza, da lui voluta e pretesa, con il Pd, partito d’establishment per eccellenza, mentre in passato giurava mai più mediazioni con la vecchia politica. E’ lo stesso Grillo che aveva imposto una svolta anti-immigrazionista e poi attacca ferocemente Salvini e la Lega (che per altro, si legga Giancarlo Giorgetti sul Corriere, si appresta ad abbandonare ogni velleità “sovranista” per inginocchiarsi ai salotti dell’élite). Lo stesso Grillo che aveva dato spazio al pensiero radicalmente critico di un Serge Latouche, di un Noam Chomsky o di un Massimo Fini, e oggi vede tutto sommato contento i suoi figliocci impaludati e ingrisagliati arrendersi al Tav, al Tap, all’Ilva, alla Bce e, ormai ci siamo quasi, anche al Mes. In definitiva al deep state, quel moloch fatto di poteri tecnocratici e burocratici che da Roma a Bruxelles decide al posto di chi governa.

Il decreto Dignità e il reddito di cittadinanza, assieme al taglio semplicisticamente numerico del parlamento con il referendum dell’altro giorno, rappresentano quel poco di eredità realmente applicata delle aspirazioni iniziali. Ma un patrimonio definito e perimetrato, un manifesto ideale di punti scolpiti senza timor di smentita non c’era, e non c’è tuttora. La natura magmatica della “cosa” grillina non si è mai data una forma precisa, e questo alla lunga si paga. Infatti la stanno pagando: la mancanza di una solida radice si rispecchia nell’assenza di una struttura forte, o quanto meno sufficiente ad assicurarsi un avvenire quando giungerà il redde rationem elettorale, garantendosi una presenza decente sui territori dove la “base” si è squagliata o è allo sbando. Di qui le improvvisazioni organizzative: dal “direttorio” che fu, ai grotteschi “facilitatori” regionali degli ultimi anni, fino ai fantomatici “Stati generali” di oggi che giustamente, proprio dal punto di vista della questione identitaria, Dibba&C reclamano purchè siano un vero e proprio congresso di rifondazione. O sarebbe meglio dire di fondazione. Ragazzi (e s’intendono non i ministerializzati come le Castelli o i Patuanelli, ma i più consapevoli, i Pedicini, i Corrao, i Maniero), qua non si pretende la dottrina ufficiale del partito, alla Marx-Lenin. Ma nemmeno tirare a campare e navigare a vista. Quello se lo poteva permettere la Dc, che alle spalle aveva la Chiesa e la sua dottrina forgiata in duemila anni di storia. Voi, alle vostre spalle, avete solo un futuro che proseguendo su questa china si accorcia sempre di più.