di Thomas Fazi.
Oggi è arrivata la risposta della Corte di giustizia europea alla sentenza della Corte costituzionale tedesca che – come abbiamo già spiegato* – giudicava il programma di acquisto di titoli pubblici della BCE incompatibile con i trattati europei.
La replica della Corte di giustizia europea è decisamente inquietante. Essa infatti non entra nel merito della sentenza tedesca ma si limita a ricordare che «in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale da questa Corte vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente», affermando poi che «per garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli Stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione». Per questo motivo, conclude la Corte, «i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione», limitandosi a recepire nel diritto interno le disposizioni della Corte di giustizia europea.
Difficile immaginare un sunto più efficace del «colpo di Stato giuridico», secondo la definizione del giurista internazionale Alec Stone Sweet, messo a punto con la creazione dell’Unione europea (UE). Qui, infatti, non ci troviamo solo di fronte a un’architettura istituzionale che, per mezzo dei trattati europei, ha creato un diritto vincolante per gli Stati membri, determinando così un complesso processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere attraverso il trasferimento (la “costituzionalizzazione”) dei princìpi cardini del liberismo nelle singole costituzioni nazionali, progressivamente svuotando di senso queste ultime, nella misura in cui questo processo ha, de facto se non de jure, reso impossibile il perseguimento di tutta una serie di obiettivi sociali consacrati nelle suddette costituzioni (esemplare, in questo senso, il caso italiano).
Ma, fatto forse ancor più inquietante, ci troviamo di fronte a una Corte di giustizia europea che – come emerge chiaramente da questo comunicato – ormai (in realtà da tempo) non si limita più a verificare semplicemente la conformità delle decisioni politiche con il quadro normativo europeo, ma di fatto, attraverso un’interpretazione “creativa” dei trattati da cui deriva la sua stessa legittimità, si arroga il diritto di produrre ex novo un diritto vincolante (quantomeno dal punto di vista della Corte) per gli Stati membri, anche se in difformità rispetto alla normativa comunitaria, senza che i singoli Stati (e le rispettive corti costituzionali) possano mettere bocca. È evidente che siamo di fronte a una mostruosità giuridica senza precedenti.
Non a caso la Corte costituzionale tedesca aveva – giustamente – sottolineato che «se gli Stati membri dovessero astenersi completamente dal sollevare [eventuali elementi di non conformità con il diritto europeo, indipendentemente dal giudizio della Corte di giustizia europea], concederebbero agli organi dell’UE un’autorità esclusiva sui trattati anche nei casi in cui l’UE adotti un’interpretazione giuridica che equivarrebbe essenzialmente a una modifica del trattato o a un’espansione delle sue competenze».
Risulta veramente difficile non dare ragione ai giudici tedeschi in questo caso. Anche perché non si tratta solo di un problema “procedurale”, ma di una questione che investe di pieno diritto la questione della legittimazione democratica del diritto. Come nota infatti Alessandra Algostino, professore associato di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Torino**: «Ciò integra un vulnus rispetto a vari elementi chiave di un ordinamento democratico; per citarne alcuni, la separazione fra i poteri, lo Stato di diritto, la legittimazione democratica del diritto».
Le problematiche legate all’autolegittimazione della Corte di giustizia europea (e dunque del diritto europeo), «derivano in ordine all’esautoramento, non tanto della sovranità in sé, quanto della sovranità popolare (stante il citato deficit democratico delle istituzioni e dei processi decisionali in sede di Unione europea, per tacere del possibile contrasto fra i principi fondanti l’Unione europea e i principi fondamentali della Costituzione)».
Conclude dunque Algostino: «In questo senso è evidente una radicale discontinuità fra l’ordinamento comunitario e gli ordinamenti delle costituzioni europee del secondo Novecento e, in specie, quello italiano, fondati sul riconoscimento del pluralismo sociale e politico, sulla sua rappresentanza, sulla prospettiva riequilibratrice e redistributiva dell’eguaglianza sostanziale. I processi delineati hanno progressivamente smussato le tensioni fra l’ordinamento dell’Unione europea e gli ordinamenti statali, ma non nel senso di una costituzionalizzazione dello spazio europeo, bensì, nel senso, inverso, di una de-costituzionalizzazione dei territori nazionali».
Le moderne repubbliche costituzionali, infatti, si differenziano dalle precedenti monarchie assolute proprio per il fatto di non essere l’atto di volontà di un sovrano legittimato dall’esterno – dalla tradizione, dal diritto divino, dalla forza bruta del Leviatano – ma di essere legittimate dall’interno da un popolo come soggetto autonomo che legifera su se stesso. Da qui l’evoluzione moderna del concetto di sovranità, innervato nella nostra Costituzione, inteso non più (semplicemente) come sovranità statuale e nazionale, bensì, appunto, come sovranità popolare.
In tal senso, il processo di sovranazionalizzazione del diritto implicito nei trattati europei, dacché presume un trasferimento del potere costituente a istituzioni prive di reale legittimità democratica o popolare, rappresenta per certi versi un ritorno all’era pre-repubblicana dei Leviatani che amministravano il diritto in maniera autoritaria in virtù di una propria autolegittimazione.