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“Centrale rischi tra legge e falsi miti”

Pubblicato il 22/06/2020 10:25

di Lorenza Morello, Giurista d’impresa.

Negli ultimi anni il numero dei contenziosi tra le banche e i propri clienti ha conosciuto un profondo incremento, con ogni probabilità favorito dalla grave crisi economica globale del 2008 che ha sconvolto gli equilibri economici (già delicati) del nostro paese.

Uno dei profili più interessanti di questa tipologia di contenzioso è rappresentato dall’illegittima segnalazione nei sistemi di valutazione del merito creditizio, nonché dal conseguente risarcimento del danno originato da tale fatto illecito.
Come è noto, è estremamente importante (in special modo nel mondo dell’imprenditoria) evitare che il proprio nominativo o quello della propria impresa risulti segnalato quale “cattivo pagatore” in una delle tante banche dati che hanno come scopo quello di valutare il merito creditizio degli utenti.
Tale segnalazione negativa, infatti, potrebbe innescare un pericoloso “effetto domino” potenzialmente in grado di provocare, nel peggiore dei casi, persino il fallimento della propria impresa.

Cerchiamo, pertanto, di fare un po’ di chiarezza.
Ora, laddove è vero che gli intermediari segnalanti sono tenuti a fornire alla Banca d’Italia i dati relativi all’indebitamento della clientela ai fini dello svolgimento del servizio centralizzato dei rischi in base agli artt. 51, 66, comma 1, e 107, comma 3, del Testo unico, è parimenti vero che la centrale rischi è stata istituita senza alcun intervento del Parlamento, dal momento che nel TUB viene solo conferito alla banca d’Italia il potere di emanare disposizioni per il contenimento del rischio e niente più. Per tale ragione, autorevole dottrina ha parlato di sistema praeter legem (Trib. Patti 17.09.2004).

Lo spirito di collaborazione degli intermediari, impone agli istituti bancari di osservare in modo puntuale tutte le regole che disciplinano il servizio, in adempimento dei propri doveri di bonus argentarius adottando quindi ogni cautela che rispettino le ragioni dell’utenza per evitare che si diffondano notizie false o incomplete, ma direi anche imprecise.
La valutazione dello stato di sofferenza, necessita da parte della banca che procede ad una tale segnalazione di una visione complessiva, sia economica che patrimoniale del soggetto segnalando, informazioni di cui spesso la banca segnalante è sprovvista. Dovrà quindi tenersi conto di elementi quali la liquidità, la capacità produttiva e reddituale, la situazione del mercato in cui opera, l’ammontare complessivo del credito.

Tali elementi, tuttavia, pur consentendo di dare una valutazione di massima sul soggetto segnalando, non giustificano una eventuale segnalazione in sofferenza qualora non sia venuta meno una generale solvibilità (Trib. Napoli 18 marzo 2005). La circolare illustrativa di Bankitalia in ordine alle modalità di segnalazione dalla centrale rischi osserva che “l’appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non scaturisce automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel servizio di pagamento del debito”. È necessario che la banca fondi la propria valutazione ad elementi oggettivi di cui ha, o può avere a propria disposizione, elementi che non possono essere il mero ritardo nel pagamento o la sussistenza della pendenza di un giudizio per l’accertamento del credito.

Tali problematiche portano all’attenzione la seguente casistica:

  1. Volontà del debitore di adempiere alla propria obbligazione
  2. L’ipotesi che il debitore, intenda adempiere, tuttavia proponendo un piano di rientro dilazionato.
    In tale ipotesi, è innegabile che la volontà di adempiere in tempi più lunghi rispetto a quelli contrattualmente previsti dalle banche appare giustificata da una impossibilità pratica di far fronte al debito nell’immediatezza, condizione che evidentemente non identifica, di per sé, una situazione di decozione tale da giustificare una segnalazione in sofferenza o incaglio.

Peraltro proprio, in tale ipotesi, ritengo operante il dovere di protezione del proprio cliente da parte della banca, o meglio il contraente (più debole) il quale vuole adempiere ma in tempi oggettivamente possibili. In una tale ipotesi, una eventuale segnalazione da parte della banca comporterebbe una violazione del dovere di buona fede ex art. 1375 c.c.
E’ tale condotta, che a parere della scrivente, rappresenta una grave violazione del principio della buona fede sancito dall’art. 1375 c.c., principio volto a garantire l’equilibrio tra le contrapposte prestazioni, che nella questione in commento è estremamente sproporzionata.

A tal fine gli interpreti hanno sempre maggiormente specificato e ampliato gli obblighi derivanti dalle clausole generali, come quelle della buona fede e dell’equità, affidando ad esse un ruolo imperativo e quindi derogatorio della stessa volontà dei contraenti. La condotta degli istituti di credito rappresenta un aspetto delle problematiche legate agli “equilibri contrattuali” che trovano la loro più alta garanzia proprio nel principio generale della buona fede.

La buona fede, dunque, permea tutto il codice civile e anche quando non è richiamata esplicitamente dal legislatore opera come principio di portata generale a cui le parti e i soggetti di diritto possono fare riferimento nei loro rapporti sociali. Come è noto la violazione dell’obbligo di buona fede può comportare, responsabilità contrattuale ed obbligo risarcitorio.

Non sembra discutibile infatti che il trend del diritto contrattuale sia quello di controllare i trasferimenti di ricchezza, mirando ad evitare che i più ricchi, per ciò solo dotati di maggiore forza contrattuale, si avvantaggino a danno dei più poveri.
La buona fede si atteggia quindi come un obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del «neminem laedere», senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 9 marzo 1991, n. 2503, in Foro it., 1991, 1, c. 2077).

E’ un dato oramai consolidato che la banca non può segnalare in sofferenza un credito per un mero ritardo, ma deve essere presa in considerazione la complessiva situazione finanziaria. Sul punto tra l’altro il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 2276/2012 (riconoscendo nel caso di specie l’illegittima segnalazione in CR), ha avuto modo di chiarire che “[..] l’istituto di credito ha senz’altro l’obbligo di compiere una approfondita istruttoria prima di effettuare la segnalazione, per verificare sulla base di elementi oggettivi – quali la liquidità del soggetto, la sua capacità produttiva e/o reddituale, la situazione contingente del mercato in cui opera, l’ammontare complessivo del credito ottenuto dal sistema creditizio e/o finanziario, se sussista davvero in concreto una situazione che induca a ritenere il credito a sofferenza ossia tale per cui appaiano sussistere rilevantissime difficoltà di recuperarlo […]”.

In conclusione, l’intermediario è tenuto ad una rigorosa valutazione prima di segnalare a sofferenza il credito del proprio cliente in quanto -in caso contrario- la segnalazione potrà essere ritenuta illegittima e l’istituto di credito potrebbe essere condannato al risarcimento dei danni cagionati al cliente.

Una volta accertata la responsabilità da illegittima segnalazione nelle banche dati creditizie, la giurisprudenza maggioritaria (v. tra le tante Cass. civ. n. 1931/2017) ritiene che il danno non sia in re ipsa, vale a dire automaticamente riconosciuto al soggetto ingiustamente segnalato, in quanto quest’ultimo dovrà comunque dimostrare il pregiudizio subito in conseguenza del fatto illecito. Le casistiche più ricorrenti al riguardo sono quelle della mancata concessione di finanziamenti, della revoca dei fidi da parte di altri istituti di credito, e quella del rifiuto ad aprire nuovi conti correnti ad un soggetto segnalato.

Il problema dell’onere della prova, in questi casi, sta nel dimostrare che la ragione per cui l’istituto di credito abbia posto il proprio diniego alle richieste del soggetto segnalato vada ricercata nell’illegittima segnalazione nelle banche dati.
Il danno da illegittima segnalazione può assumere non soltanto la veste di danno patrimoniale ma anche quella di danno non patrimoniale.
A livello di danno patrimoniale, il danno si concretizza soprattutto sotto il profilo della riduzione della possibilità di investimenti e del ridotto (rectius, annullato) accesso al credito e tale danno avrà una portata più consistente laddove il soggetto rivesta la qualifica di imprenditore.

In ordine al danno non patrimoniale, poi, esso è comprensivo di molteplici componenti, ovvero del danno morale e del danno alla reputazione personale e commerciale del soggetto ingiustamente segnalato, rientrando entrambi nel novero dei diritti della personalità che godono di copertura costituzionale ai sensi dell’art. 2 della Cost. e che dunque sono pienamente risarcibili.

Il c.d. danno morale, tra l’altro, potrà essere oggetto di risarcimento (non autonomamente ma nell’ambito del danno non patrimoniale) anche nel caso in cui il soggetto segnalato non sia una persona fisica ma una persona giuridica tant’è che la Corte Suprema sul punto ha rilevato che “anche nei confronti dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale intesa come qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione: allorquando, cioè, il fatto lesivo incida su di una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla costituzione” (Cass. Civ. n. 15609/2014; Cass. Civ. n. 22396/2013; Cass. Civ. n. 29185/208; Cass. Civ. n. 12929/2007).