Di Gianluigi Paragone – Da anni andavo ripetendo che troppi stranieri nel calcio avrebbero rotto il giocattolo. È infatti il giocattolo si è rotto. Al di là delle scelte che farà, il sottinteso delle dimissioni di Roberto Mancini (nella foto) è qui: come si fa ad allenare una Nazionale quando nei campionati italiani non c’è più il rispetto per il lavoro che i vivai svolgono a fatica? Come si fa ad allenare una Nazionale in vista di competizioni internazionali quando si devono sguinzagliare osservatori per beccare l’oriundo o il giocatore italiano in forza ai club di Premier, di Bundesliga o, come succede ora, nei campionati arabi? Un po’ di ragione Cristiano Ronaldo l’aveva quando presuntuosamente affermava di aver «salvato» un Campionato a corto di fiato.
Quanto vale la nostra serie A sul mercato dei diritti tv (un mercato di per sé già drogato)? Poco. I nostri ragazzi giocano alla Play ma schierano le squadre straniere, soprattutto inglesi, perché lì ci sono i campioni. Mancini ha rotto il vetro che ci teneva ancora dentro la bolla: così non si può andare avanti. L’aveva già denunciato, inascoltato. I presidenti, molti dei quali privi anch’essi di identità, preferiscono avvantaggiarsi di norme fiscali acquistando chiunque venga dall’estero nella speranza di guadagnare qualcosa con i trasferimenti futuri. Retegui è l’esempio accademico: prima in Nazionale poi in serie A. Il centrocampista della Nazionale, Verratti, non ha giocato neppure un minuto in serie A.
Potremmo andare avanti così a lungo citando esempi poco vistosi; il Mancio ha preferito non proseguire. E non certo perché gli manchi coraggio. Ha fatto miracoli ma adesso è troppo: perché chiedergli di cantare e portare la croce? Mancini è un allenatore top e merita rispetto. Ora tocca alla «politica» decidere che schema mettere in campo: vogliamo proteggere i giocatori italiani oppure farli scalzare da gente di pari qualità (se va bene, perché sono arrivati anche fior di bidoni) che però costano di meno? Fuori idee fiscali che proteggano il patrimonio Made in Italy. Leggiamole le formazioni, è una Babele di nomi. Vince la «globalizzazione» (lo stesso Mancio ha allenato all’estero) ma la globalizzazione non ci sta premiando: gli sceicchi stanno cambiando anche le mappe del pallone.
È possibile che non riusciamo a rimpiazzare senatori che per motivi anagrafici dovrebbero avere degni sostituti? Quando la Nazionale di Bearzot entrò in crisi, il testimone passò a Vicini che puntò sui ragazzi dell’allora sua Under 21: Mancini, Vialli, Giannini, Donadoni, Maldini, Zenga, Matteoli… Ora? Abbiamo recentemente visto all’opera dei giovanissimi baby calciatori che però non trovano allenatori disposti alla scommessa. Lo ripeto: stiamo distruggendo il calcio, la sua funzione sociale e narrativa; e contestualmente stiamo assistendo al declino imprenditoriale di una generazione che né si carica il fardello di una squadra né la sostiene con le sponsorizzazioni. Gli anni 80 furono l’apoteosi di questa saldatura: nella Udine degli Zanussi arrivò Zico, nella Genova di Mantovani i giovani talenti furono accompagnati da Toninho Cerezo, nella Roma di Viola arrivò Falcao, a Napoli Maradona. Ma questi erano gioielli che non soffocarono i giocatori italiani di talento. Il tempo per una controrivoluzione c’è, la volontà?