di Gianluigi Paragone – Meno 325mila artigiani in dieci anni: la denuncia arriva dalla Cgia di Mestre, il centro studi che da anni vigila sull’andamento dell’economia reale. Perché sono stati persi? Il discorso è complesso però sostanzialmente lo possiamo analizzare costruendo due sottoinsiemi: il primo è legato a cause comuni, un secondo è più culturale. Provo a spiegarmi.
La chiusura di attività e di partite iva è sicuramente legato a quelle motivazioni che flagellano, soprattutto negli ultimissimi tempi, diversi settori: i rincari delle bollette (energia in primis, ma anche le tariffe della spazzatura), come delle materie prime e soprattutto degli affitti. Poi le tasse, le banche. E il boom delle nuove tecnologie che, a basso costo, prestano servizi di disintermediazione come fanno i portali di gestione di servizi – anche di tipo artigianale – dove il piccolo imprenditore diventa un dipendente occulto della piattaforma ma con tutto il carico di sue spese; in poche parole la piattaforma raccoglie la domanda e la smista all’offerente che, in in difficoltà di liquidità, accetta le condizioni a basso prezzo. Al danno si aggiunge la beffa di una lunga e ormai affermata campagna denigratoria per cui gli artigiani sono gli evasori fiscali per eccellenza. (Continua dopo la foto)
Un altro motivo, altrettanto importante e impattante, è invece quello dello scarso ricambio generazionale: gli artigiani senior non reggono più con l’età e non c’è il giovane formato cui lasciare la bottega. Questo vale a maggior ragione per quei settori dell’artigianato più specializzato e quello più ancorato alla tradizione di taluni settori quali la sartoria, la calzoleria, la falegnameria, la sartoria, la carrozzeria, gli orafi, la decorazione degli edifici (imbianchini, tappezzieri, stuccatori…). Tutti mestieri che difettano di quel tocco moderno che invece caratterizza i nuovi mestieri di tendenza. Arriviamo così alla seconda spiegazione – quella culturale – della crisi. In altre parole: fa figo aspirare a far soldi come influencer, non fa figo fare il meccanico o il sarto. Molti ragazzi non sanno nemmeno che, tra l’altro, si guadagna di più facendo l’artigiano che l’influencer.
Del resto, se ci pensiamo, fino a una quindicina di anni fa nemmeno il cuoco era un’aspirazione popolare: gli istituiti alberghieri vivevano una profonda crisi. Fintanto che non è arrivata la televisione che ha creato il personaggio “chef” (guai a chiamarlo cuoco o oste, per carità) e i canali televisivi si sono riempiti di cooking show con vantaggi per tutti. (Continua dopo la foto)
Da tempo vado ripetendo che il “saper fare” è ciò che caratterizza quel Made in Italy tanto richiesto nel mondo. Valorizzare la manifattura, la creatività, l’artigiano ci conviene, altrimenti rischiamo di essere risucchiati dalla globalizzazione e dalla standardizzazione, virus dell’eccellenza italiana. Va dato atto al governo di aver azzeccato la mossa con l’accademia del Made in Italy, un atto coraggioso e lungimirante. Allora mi domando: cosa aspetta la Rai a creare un talent per rendere “cool” il sarto, il falegname, il calzolaio, l’orafo, il decoratore replicando lo schema di Masterchef. E’ qui che la Rai deve dimostrare di saper declinare mission pubblica e creatività televisiva, anche – qui sì – avvalendosi di società esterne. Quando ricoprii incarichi in Rai e poi in Vigilanza Rai ho più volte sollecitato questo intervento. Evidentemente non interessava. Sono tornato alla carica recentemente anche scambiando alcune battute con i vertici attuali. Nulla. Eppure, cos’altro è un talent se non l’elogio del saper fare e la ricompensa per chi sa fare?