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L’assenza di conflitto nell’Italia sedata

Pubblicato il 01/12/2021 18:37 - Aggiornato il 07/12/2022 18:29

«Tutto ciò che penetra di civiltà nelle masse vi penetra mediante la lotta, ch’è il solo modo di sviluppare una civiltà nuova e più alta». A scrivere così a inizio Novecento non era un pericoloso agitatore, bensì Francesco Saverio Nitti, futuro presidente del Consiglio, nonché mente tra le più raffinate dell’Italia liberale.

Il conflitto ha sempre rappresentato un potente indicatore della vitalità delle comunità umane e alcune delle epoche più tragiche della storia, a costo di dire un’enorme banalità, hanno poi germogliato conquiste significative. Lungi dal guardare con nostalgia gli anni della violenza politica e del terrorismo, occorre tuttavia valutare anche l’altro lato della medaglia. Il generale ripiegamento nella sfera individuale e la cancellazione di ogni costruzione di senso collettivo o superiore evidenziano infatti un congelamento di qualsiasi spinta propulsiva, con la storia misurata sull’ordinaria amministrazione e sul feticismo verso i decimali del PIL. Non estraneo certamente a questa “bolla post-storica” è l’aumento dell’età media degli italiani, oramai attestata intorno ai 46 anni. Ciò comporta la riduzione della soglia di dolore considerata accettabile dalla collettività, come la pandemia ha ampiamente dimostrato.

L’abbassamento della propensione al rischio e la convinzione che anche gli attori internazionali guardino al mondo come a un libro contabile (e non, invece, come a uno spazio di conflitto) rischia di far vestire all’Italia i classici panni della “rana bollita” di chomskiana memoria.

È necessario inoltre segnalare il paradosso di un conflitto “surrogato”, quello dei social, che trasferisce in ambito virtuale i dibattiti e le contestazioni del mondo reale, sterilizzandoli. La prima conseguenza è quella di un conflitto perpetuo sulla polemica del giorno. La ripartizione in squadre “pro” vs “contro” su ogni singola notizia esaurisce la possibilità di qualsiasi intervento reale. Se tutto è importante, infatti, nulla è importante. Se tutto è un attentato alla libertà o alla Costituzione, nulla lo è.

Speculari a questo aspetto sono alcuni movimenti e partiti “di protesta”. Come insegnava ironicamente Umberto Eco ne Il Pendolo di Foucault, se vuoi sventare un complotto organizzalo. Del resto, ha sottolineato Marco Rizzo, in passato il potere si preoccupava di costruire il consenso. Oggi, invece, è arrivato ad organizzare il dissenso stesso. I sedicenti gruppi di protesta tout court risultano estremamente funzionali alla delegittimazione di qualsiasi critica strutturale. Siamo passati dall’esistenza di una controinformazione delle classi “subalterne” (che, per carità, non sarà stata esente anch’essa da cantonate) all’elevazione della scienza come dogma, quasi potesse quest’ultima situarsi in una prospettiva del tutto estranea rispetto ai conflitti e agli interessi umani. La costruzione di un soggetto in grado di coniugare il rispetto per la scienza con il mantenimento di uno sguardo critico sul mondo è una sfida tutt’altro che secondaria dei nostri tempi.

Se si considera esiziale il torpore in cui è caduta la nostra collettività non sarà forse superfluo proporre due azioni preliminari. La prima consiste nel fissare pochissime ma vitali “linee rosse”, sia a livello internazionale (optando scelte coraggiose per recuperare un minimo di peso in ambito continentale e mediterraneo, sapendo che ciò potrebbe presentare dei costi: l’indipendenza si paga), sia in quello delle libertà interne, mettendo il ritorno alla vita pre-pandemia quale condizione improcrastinabile, insieme ad una solidale ripartizione degli oneri sociali della crisi. La seconda proposta riguarda invece la necessità di una nuova pedagogia, in grado di ridare agli italiani fiducia in sé stessi, allontanandoli dal minimalismo che li contraddistingue e mettendoli contemporaneamente di fronte alle responsabilità di confrontarsi con un mondo che non è appunto esente da conflitti.

M.V.S