L’Italia è l’unico Paese che si è opposto alla più colossale punizione ai danni dei proprietari di casa privati. Cioè noi. Già, perché pochissimi Paesi possono vantare il patrimonio immobiliare degli italiani. Ricchezza patrimoniale, senza dubbio, ma anche fattore culturale che nel corso dei decenni ci ha consentito di essere titolari di una ricchezza importante. Nella nostra mentalità tramandata dai nostri nonni e dai nostri genitori, la casa è garanzia di stabilità, è radici familiari, è un investimento sicuro, è affetto ed è la declinazione del modello industriale che ci ha imposti al mondo, quel casa e bottega da cui si è innervato l’artigianato, la piccola impresa, la manifattura, insomma il Made in Italy. Abbiamo costruito casa e capannoni, ne abbiamo comprati e ne abbiamo ereditati: sono la fotografia di un benessere che da quando siamo entrati in Europa è sempre stato visto come un salvadanaio da rompere o un bottino da cui attingere.
Ecco perché un governo conservatore non poteva che bocciare la direttiva europea, figlio della maggioranza Ursula (presidente Meloni, direi anche basta con la signora. Archiviamo la stagione e non se ne parli più) e del fanatismo green che la ispira. Perché dico fanatismo. Perché – al contrario delle baggianate enunciate a sinistra e dai suoi gazzettieri – le rivoluzioni vere si lasciano fare al mercato. La gente trova più conveniente la macchina elettrica perché non inquina, si risparmia al momento del pieno e fa bene al mondo? Bene, si lasci fare al mercato (magari col sostegno di un buon incentivo governativo); ma non – come è successo – fissare una norma che cambi profondamente i processi produttivi, tra l’altro a danno dei distretti dell’automotive italiani dove sulla componentistica dei motori abbiamo ancora molto da insegnare, come modello organizzativo e come idee.
A maggior ragione lo stesso doveva valere sul mercato immobiliare: è più conveniente avere una casa già omologata sui nuovi standard di efficientamento energetico, perché si risparmia energia, perché l’immobile acquista più valore eccetera? Bene, sarà il mercato a premiare i nuovi proprietari. Invece, il fanatismo impone la Norma, perfetta liturgia di una Europa che al di là delle norme e dei parametri non sa andare. Uniformarsi alle indicazioni previste nella direttiva ha un costo elevato. Prendo da Repubblica (così non ci accusano di complicità con Orban e i sovranisti): “Lavori in 2 milioni di case entro il 2035 per le famiglie costi fino a 80 mila euro”. Chi paga? Noi. Perché ad oggi la verde Ue fissa le regole ma non sgancia i soldi: di qui al 2030 la transizione costerà 275 miliardi l’anno, di cui 152 aggiuntivi e ancora da reperire.
Ma anche laddove ne sganciasse una porzione superiore a quel che ci è dato conoscere, saremo nella solita formula del prestito al governo, quindi ancora sulle spalle degli italiani perché “i grandi cambiamenti non sono un pasto gratis”. Non è difficile intuire che se i nostri concittadini non riusciranno a sostenere le spese di investimento – perché una casa fuori norma non può essere messa a reddito – cosa succederà?(S)venderanno la casa. A chi? A coloro che non conoscono le crisi: assicurazioni, fondi, banche, cioé a quei soggetti che negli altri Paesi europei già sono i maggiori proprietari immobiliari. L’Europa, quindi, non spinge solo alle normative cosiddette green, ma agevola i grandi investitori che non vedono l’ora di mettere le mani sugli immobili del Bel Paese e farli fruttare dopo averli riammodernati, perché tanto a loro i soldi non mancano.
Ecco la vera morale della storia. Ed ecco perché ha fatto bene il governo italiano a respingere questa Direttiva.