Di Gianluigi Paragone – Sono anni che l’Europa cerca di mettere le mani sui porti italiani. Il vicepremier nonché ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dovrebbe saperlo bene; nel caso in cui la sua memoria avesse rimosso la questione gli ricordiamo che anni fa la commissione sulla concorrenza, sollecitata dai tedeschi, impose all’Italia di fare chiarezza sulla fiscalità dei porti configurando aiuti di Stato e parlando di messa a gara laddove non avessimo ripristinato aliquote “impari” rispetto ad altri Paesi.
L’altro giorno Tajani ha rilanciato il tema delle privatizzazioni (anche) degli scali portuali come leva <per trovare più fondi per il bilancio dello Stato>. Per fortuna il suo alter ego Matteo Salvini gli ha risposto che <non è nel programma di governo>. Concordo: continuare a predicare il verbo delle privatizzazioni per fare cassa a danno di asset fondamentali per una Nazione mi sembra una scommessa assai sciagurata. Abbiamo già visto il film Telecom e Autostrade per capire la trama e il finale: lo Stato non fa abbastanza cassa o almeno non tanto quanto ne fanno coloro che subentrano; di contro perde pure il controllo su infrastrutture nevralgiche.
Onestamente non riesco a capire come si possa pensare di inserire il sistema portuale nel giro delle privatizzazioni proprio quando si decide di (ri)puntare sul Mediterraneo per tornare a contare qualcosa nelle relazioni internazionali. Da quando abbiamo perso il nostro ruolo in quel pezzo delicato di mondo, abbiamo smarrito il posizionamento geopolitico.
I player globali che stanno mettendo occhi e mani sui terminali del Mediterraneo sono pochi e di indubbia valenza “politica”. I cinesi per esempio hanno messo le loro mani su diversi porti europei con partecipazioni importanti; nel 2016 nel pieno della crisi del debito che travolse Atene, hanno fatto di più: la compagnia statale cinese Cosco s’è presa il porto del Pireo. Un bell’affare per la Cina, molto molto meno per i greci (e anche allora la privatizzazione doveva servire per risanare i conti).
Non basta quel caso per capire quanto inestimabile sia il valore di una rete infrastrutturale? Ma perché dobbiamo continuare a farci depredare di punti di forza, solo perché non siamo in grado di far girare una economia? Guardiamo Rotterdam: com’è possibile che le merci prendano anche la via più lunga solo perché lì hanno abbattuto i temi di sdoganamento delle merci (con tutti i pro e i contro della questione, sia chiaro. Ma siccome lo fanno gli olandesi nessuno dice nulla, né sull’ingresso di carichi destinati all’economia criminale, né sull’inquinamento delle navi cargo)? Perché dobbiamo stare a guardare? Il porto di Taranto è stato un pezzo importante nella trattativa con ArcelorMittal: chi ci ha guadagnato? Lui, il re dell’acciaio francoindiano.
Il rischio è che davvero nella solita smania di uscire da una crisi finanziaria (i cui parametri sono peraltro discutibili), si entri in una crisi di strategia. L’Italia non solo ha bisogno dei porti ma ha assoluto bisogno anche che vi sia una visione più complessa e larga dove i terminali sul mare svolgano una funzione. Commerciale e politica.