x

x

Vai al contenuto

“Era ed è un insulto”. Il ddl Zan non serve: la sentenza della Cassazione sugli insulti sessisti lo conferma

Pubblicato il 24/05/2021 12:41 - Aggiornato il 24/05/2021 12:43

Il ddl Zan non serve, è quanto viene dimostrato con una recente sentenza emessa dalla Cassazione e risalente al 7 maggio 2021. I giudici della suprema corte, sono stati chiamati a pronunciarsi su una caso che vede coinvolti Efe Bal, transessuale impegnata da anni per la regolarizzazione della prostituzione, e un presunto cliente, un esponente della Lega, allora consigliere comunale del carroccio nell’hinterland milanese.

Nell’estate del 2015 Efe Bal aveva raccontato su Facebook di aver avuto un rapporto sessuale a pagamento con l’uomo politico e lo aveva apostrofato come “frocio e schifoso”. Il consigliere comunale, ha negato tutto e l’ha querelata per diffamazione.

Processata e condannata, in primo grado e in appello, ad una pena pecunaria, la transessuale ha poi fatto ricorso in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza. A sua difesa veniva sostenuta la tesi secondo cui le espressioni indirizzate all’uomo politico, sarebbero prive di carattere dispregiativo per “l’evoluzione della coscienza sociale”.

Ma i giudici non hanno esitato, hanno respinto il ricorso confermando la condanna: gli aggettivi utilizzati “costituiscono, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana”.

Anche l’avvocato Salvatore Simioli, responsabile del settore giuridico di Arcigay, si è espresso positivamente in merito alla sentenza: “ll pronunciamento della Cassazione è in linea con le decisioni e le motivazioni precedenti. Il termine frocio era e resta offensivo e dispregiativo. Diverso è il discorso per gay e omosessuale. Sono entrate nell’uso quotidiano e neutro, perdendo la connotazione di insulto. Certo, anche queste parole poi possono ferire e avere una portata offensiva e lesiva. L’elemento che fa la differenza è l’intento diffamatorio, indipendentemente dall’orientamento sessuale della persona etichettata, questione che non ha rilevanza nemmeno nella decisione più recente”.