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Diga del Vajont, 59 anni dal disastro. L’Italia piange la sua più grande ferita in tempo di pace (Fotogallery)

Pubblicato il 09/10/2022 15:35

Sono passati 59 anni da quando 260 milioni di metri cubi di terra si staccarono dal Monte Toc, franando nel bacino artificiale. Poi la furia dell’acqua pensò al resto, radendo al suolo Longarone. L’Italia intera pianse circa duemila vittime. Furono poco meno della metà quelle identificate. La magistratura nel ’72 ha condannato Biadene e Sensidoni: «Catastrofe prevedibile».
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Oggi è quel che si suol dire “un disastro annunciato”. Cinquantanove anni fa, precisamente il 9 ottobre 1963, la tragedia del Vajont scosse l’intero Paese, togliendo la vita a 1.917 persone e cancellando dalle cartine Erto e Casso, distruggendo quasi totalmente anche Longarone. L’impatto con l’acqua provocò un’onda distruttrice e portatrice di morte e distruzione. A quasi 60 anni dalla catastrofe la ferita ancora fatica a rimarginarsi. Erano le 22.39 quando dal Monte Toc si straccarono 260 milioni di metri cubi di roccia e terra che cominciano a scivolare nel lago artificiale costruito per far funzionare una centrale elettrica.
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Il Corriere della Sera riporta alcune testimonianze dei pochi sopravvissuti, che oggi sono circa 250. «L’anno prossimo riporteremo i riflettori sulla storia del Vajont da tutta Italia – dice Padrin – quello che è successo deve far riflettere, deve passare messaggi precisi su come l’uomo approccia la natura». In queste ore, intanto, per la ricorrenza tra Longarone e i paesini di Erto e Casso è un brulicare di iniziative. Messe di suffragio, «lucciolata» (la camminata notturna) veglie in memoria e percorsi per scoprire i luoghi del disastro ma anche convegni, incontri delle associazioni proprio quelle che in questi anni hanno cercato di tenere vivo il ricordo dell’accaduto, di tramandarlo e di combattere perché fosse garantita una giustizia alle vittime.
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Qualche giornalista aveva tentato di avvisare sulla pericolosità della diga, costruita in una zona geologicamente pericolosa esposta al forte rischio di frane e fenomeni sismici. “E’ una minaccia”, dicevano. Il risultato fu una denuncia per diffusione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico. C’erano stati anche dei periti, onesti, che avevano segnalato i movimenti del terreno. “Se la montagna dovesse franare – dicevano – la tragedia non potrà essere evitata”. Se solo fossero stati ascoltati, forse la strage si sarebbe potuta evitare.
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Il Corriere racconta: “Tutte le paure si materializzeranno la sera del 9 ottobre, quando dalla montagna si staccano 260 milioni di metri cubi di roccia, terra e alberi. L’impatto nell’acqua contenuta nell’invaso, alla velocità di 100 km/h, provocò un’onda impressionante, dalla potenza due volte superiore alla bomba di Hiroshima e Nagasaki. In meno di due minuti si consuma l’irreparabile. Per Erto, Casso, le frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Prada, Liron, Col della Ruava, Forcai, Valdapont e Longarone non c’è scampo. 1.917 persone morirono. A 487 bambini fu cancellato il futuro. Il più piccolo, Claudio Martinelli, aveva appena 21 giorni di vita. Nessuno ha avuto il tempo di difendersi, di mettersi al riparo. Non esistevano più case, né chiese, strade o scuole, monumenti e memorie e sogni. C’era solo fango, macerie. Silenzio, morte e desolazione”. Uno scenario da film horror.
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Il 10 ottobre 1963, quando l’Italia si svegliò leggendo sui quotidiani la notizia del disastro del Vajont, accadde una cosa “strana”. Tante, tantissime penne del giornalismo di casa nostra archiviarono quello che era successo come una disgrazia naturale per la quale l’uomo non aveva alcuna responsabilità. Dopo il disastro, i veri responsabili furono elogiati per aver costruito una diga in grado di rimanere in piedi nonostante la sfortunata calamità. Un capolavoro di ingegneria coinvolto in una tragedia che nessuno poteva prevedere. In realtà, il Monte Toc ogni giorno scivolava di qualche centimetro, era come qualcuno aveva scritto, una montagna che cammina. All’indomani della tragedia si disse: mai più. Parole troppe volte ripetute, dopo disastri di ogni genere.

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