Di Gianluigi Paragone.
Visto che ne parlano in tanti, più per spaventare che per reale fattibilità, vi sfido e dico: mettete noi non vaccinati in lockdown. Un mese di stop. Non in tutta Italia ma solo in qualche provincia più a rischio. E poi scopriamo le carte. Siccome ci auto sottoponiamo a questo status di sperimentazione sociale, poniamo le condizioni: piena retribuzione (non c’è obbligo vaccinale quindi non ci può essere alcun taglio remunerativo), i bambini della scuola dell’obbligo vengono accompagnati a scuola e riportati a casa con mezzi pagati dall’amministrazione comunale (il genitore scenderà con mascherina ffp2), riduzione delle tasse visto che vi stiamo facendo un favore.
E poi, last but not least, piena trasparenza sui dati: nessun segreto, nessuna copertura, nessuna interpretazione dei dati. Così vediamo una volta per sempre il pallottoliere dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e di tutto il resto della canzoncina che ogni giorno si ripete come una litania. Io penso che non accetteranno e se non lo fanno su un campione provinciale figuriamoci nella versione più hard, alla austriaca. Lo dicono per spaventare e per fare i brillanti quando vanno in televisione: la paura di dover incrociare i dati senza avere più alibi e scuse li assale esattamente come sanno che l’obbligatorietà vaccinale come regola non la possono approvare.
Avere nel panel anche coloro che non si sono vaccinati (perché la legge lo prevede) consente ai politici e ai comitati di sapientoni vari di scaricare sui «no vax» gli errori commessi nel corso dell’emergenza. I recenti dati forniti dall’Istituto superiore della sanità fanno cadere infatti la narrazione dei mesi passati, quando spingevano le persone a vaccinarsi strombazzando immunità, guarigioni e protezioni varie. Invece, col tempo, è uscita un’altra verità: non c’è la pandemia dei non vaccinati.
Dopo i pasticci di una campagna vaccinale piena di contraddizioni (il caso AstraZeneca fu emblematico), complice la mancata trasparenza dei contratti tra Unione Europea e le multinazionali, ai punturati col siero venne detto che sarebbero stati immunizzati e finalmente non avrebbero avuto più problemi, e invece i problemi arrivarono per quanto silenziati per non incutere timori. Poi arrivò il turno della seconda dose, «così finalmente non ci saranno davvero più problemi», dicevano in televisione. E invece si scoprì che anche i vaccinati potevano contagiare ed essere contagiati, tant’è che si ricordavano le regole del distanziamento e della mascherina. «È vero, ci si può contagiare ma in maniera molto lieve: i vaccinati non finiscono in terapia intensiva», fu la correzione in corsa. Oggi i dati ci dicono che i vaccinati si possono ammalare seriamente, finire in terapia intensiva e pure morire.
È «il paradosso di Simpson», ribattono non capendo che avanti di questo passo Homer Simpson diventa più affidabile di Speranza. La realtà con cui fare i conti, oggi, ci dice che i vaccinati della prima fase (quindi sanitari e soggetti più deboli) stanno andando in giro privi di copertura perché l’efficacia ha perso di intensità ma nessuno gliel’ha detto.
Da qui una domanda: perché così tanto tempo per comunicare la reale efficacia delle dosi? E un’altra ancora: tra un vaccinato che privo di copertura e di protezione va in giro credendo di essere immunizzato, e un non vaccinato (perché la legge glielo consente) negativo a un tampone ogni 48 ore, chi è più tracciato e quindi meno pericoloso per gli altri? Il secondo. Eppure in televisione e sui giornali è lui l’irresponsabile, l’untore e il mostro da uccidere. Magari con il napalm del governatore De Luca. Ps. Dimenticavo. Al termine della sperimentazione e usciti dal «nostro» lockdown, ci toglieremo la soddisfazione di ridere in faccia a tutte le sieroveline.